I saggi qui riuniti toccano Pavese, Sereni, Ungaretti, Gatto, Bertolucci, Fortini, Amelia Rosselli, Pasolini e documentano nel secondo Novecento una linea che non coincide con la nozione di poesia che si ibrida con la prosa abbassandosi inesorabilmente di tono.
Nel dopoguerra, come dimostra Fortini (ma lo stesso vale per Pasolini o per Sereni), molto spesso la radice della poesia seguita ad essere legata all’esperienza degli anni Trenta, ad uno statuto lirico, se non espressamente all’ermetismo. Questo vale ancora per Amelia Rosselli, che, senza soluzione di continuità, nella Libellula come in Documento, concepisce la poesia in termini di assoluto e sublime: e proprio negli stessi anni in cui il Gruppo 63 sta segnando la vera brusca rottura rispetto ai modi tradizionali.
Non è di poco conto – ben oltre gli anni Settanta – che, come estrema reazione di difesa di fronte alla crisi in atto, la strada intrapresa da non pochi poeti – Solmi come Fortini e Sereni, Giudici, ad esempio – sia quella del lutto e della rappresentazione di sé come ormai postumi, ridefinendo la strategia lirica come estraneità al mondo e alla storia.
Non si tratta di risorgenze episodiche, bensì di una estesa fenomenologia che consente di rileggere in modo più complesso, secondo una pluralità di linee, la stagione posteriore agli anni Cinquanta, ancora poco storicizzata e spesso indagata col ricorso a categorie critiche elaborate all’interno degli stessi movimenti.
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