Questo libro è prodotto di un'Italia che “non s'inkanta”: l'autore vede iniziare con Kant e con la filosofia professorale la parabola discendente del pensiero moderno. L'assunto generale riconosce alla contemplazione e all'imitazione, alla narrazione e all'ascolto, il valore di fonte primaria d'o-gni conoscenza d'ordine superiore, e attribuisce alla trattazione filosofica una dignità non diversa da quella di un particolare genere letterario, senza altre pretese. La trattazione kantiana si distingue per la povertà culturale delle sue pretese.
L'insolita attenzione lungamente dedicata alla lettura degli scritti precritici dà la misura dello scarso talento teorico del giovane e meno giovane Kant, e toglie alla Critica della ragion pura l'inspiegabile aura del geniale raffazzonamento creativo. Un minuzioso lavoro di comparazione fra le traduzioni italiane (Gentile, Colli, Chiodi, Marietti, Esposito, oltre a Carabellese) viene effettuato su una campionatura di passi scelti della prima Critica. A dispetto di ogni difficoltà sorgente nella teoria e nella scrittura, si vede come Kant si lasciò guidare per lo più dall'istinto della fuga: lo stile rivela il suo compunto disordine. Cresciuto all'ombra di giganti, egli seppe dare una statura alla mediocrità.
La prospettiva filosofico-politica di questo studio illumina i lontani pregiudizi dei gruppi dirigenti nazionali. Il dualismo teorico kantiano ha formato la mentalità attivistica di chi ha voluto fare del Novecento il Secolo della Germania. Il moralismo pratico, d'altra parte, è complice di quell'arte massima della minima giustificazione che solleva gl'intellettuali da ogni responsabilità nel momento dell'azione, e permette di svernare con dignità ai reduci di tutte le svolte.