di Paolo Mesolella
di Giovanna Mozzillo
La scrittura del ricordo e della lontananza in alcuni autori del novecento italiano
Se la storia è molto spesso insegnamento, stimolo alla riflessione, esempio per la costruzione di un futuro migliore, la prima guerra mondiale, scoppiata a conclusione del Risorgimento italiano, si configurò come lo sbocco di sedimentazioni ideologiche radicatesi negli anni anteriori. Alle sentite e contingenti ragioni patriottiche, comprese tra le istanze liberali del governo giolittiano, le spinte nichiliste, rivoluzionarie, bellicistiche, eroiche degli irredentisti, e l’indole pacifista di certi intellettuali, si unì il disincanto delle masse e di quanti furono chiamati alle armi soprattutto per rimpinguare le linee di frontiera e popolare le orribili trincee. Il libro, attraverso la rilettura della memorialistica di guerra, scritta “a caldo” o dopo il conflitto, per non dimenticare ed esorcizzare il futuro, si concentra sulle testimonianze di autori come Gadda, Fenoglio, Pastorino, Palazzeschi, D’Annunzio, Prezzolini, o meno noti, come Scarpa, Monelli, Frescura, Stanghellini, Scortecci. Più che sulle ragioni contingenti (la questione, cioè, delle terre irredente), si è preferita operare una ricostruzione dall’interno dei sentimenti, degli stati d’animo, delle reazioni psicologiche degli scrittori, estendendo l’esegesi anche ad alcuni testi ispirati al secondo conflitto mondiale, nel quadro di una considerazione vichiana della storia, fatta di “corsi” e “ricorsi”. Entro il comune registro di coordinate interiori, desolanti e rovinose, si è inteso così delineare il profilo identitario dell’uomo del cosiddetto “secolo breve”, che non ha ancora oggi raggiunto una stabilità definitiva in termini di pace e di libertà.