di Sebastiano Aglieco
La svolta più importante nello sviluppo poetico di Mario Moroni è la svolta della leggibilità; leggibilità naturalmente relativa, complessa e in necessario interno conflitto con se stessa. (Fra la categoria del “leggibile” e quella dell’“illeggibile” la sola differenza sembra essere la presenza/assenza di una sillaba.) Moroni è stato il poeta di una meditazione concentrata fino all’orlo dell’ossessione – quella che si potrebbe chiamare una “ruminatio”. Ma la “ruminatio” moroniana si è ora distesa in pacata osservazione e riflessione: Moroni guarda la storia dal basso – nel modo in cui i poveri e gli umili guardano al decorso degli avvenimenti.
Moroni è anche autore di prose brevi e di saggi critici, dove la leggibilità diviene anche affrontamento geografico, o per meglio dire geopsicologico. Come di solito accade, ciò che l’opera critica costruisce intorno all’opera in versi è essenzialmente un contesto esistenziale; e il mero fatto dell’esistenza di una scrittura critica che si sviluppa a fianco dei versi, esercita in qualche modo un effetto – che non conviene peraltro tentare di definire con eccessiva precisione – sui versi stessi. (Rivisitando l’antico motto del “Primum vivere, deinde philosophari”, si potrebbe dire che i vari tipi di scrittura, nei loro differenti generi e registri, finiscono sempre col trovare un loro equilibrio – idiosincratico ma funzionale – nel quadro della vita concreta dell’autore.)
Ha scritto Moroni (a proposito di Andrea Zanzotto) che: «Risulta evidente come il confine tra affermazione e negazione della soggettività sia sottile» – e questo è ben vero al di là del caso specifico. La poesia di Moroni continua a interrogarsi sull’«irruzione dell’altro», con la «complicità di un modesto ritrarsi (“effacement”) per cui il sé si rende disponibile all’altro-da-sé» (Paul Ricoeur, «Soi-même comme un autre»). Un “altro” che potrebbe, o non potrebbe, essere una forma del Logos.
(Paolo Valesio)