di Fabrizio Foschi
di Walter Viola
di Federica Capaccioni
«Ogni incontro viene da Dio, perché ogni incontro è l'istante in cui le persone si trovano faccia a faccia, a volte per un brevissimo istante, ma nello stesso tempo anche per sempre, poiché, quando ci si incontra con il cuore, con fede, carità, con una speranza comune, nel segno della comune croce, nella luce della comune vittoriosa resurrezione che verrà, ormai non ci si può più separare, le distanze terrene non separano più le persone».
(metropolita Antonij)
Andrej Bloom, futuro metropolita Antonij, nasce il 19 giugno 1914 a Losanna. Trascorrerà la sua infanzia in Persia dove il padre, Console russo, svolgeva servizio. Nel 1920, a seguito della rivoluzione russa, emigra prima in Francia e poi in Inghilterra dove morirà il 4 agosto 2003.
Di seguito riportiamo la testimonianza dell'Arcivescovo Rowan Williams che apre l'edizione.
Per un’intera generazione di inglesi, il metropolita
Antonij non è stato solo la voce del
cristianesimo russo, ma una delle voci più
intense della testimonianza cristiana come
tale. Tra gli aspetti più notevoli della sua personalità
c’era il fatto che, mentre da un lato tutto quello che
diceva era profondamente radicato nella liturgia
e nella tradizione spirituale russa, dall’altro sapeva
presentare gli elementi essenziali della fede cristiana
tradizionale sia a persone provenienti da ogni contesto
confessionale, sia anche a chi non aveva mai avuto
in precedenza contatti con la fede; tutti restavano
colpiti dalla sua presenza, dall’impatto con un uomo
che viveva così evidentemente il cuore dell’identità
cristiana ed era libero di parlarne con straordinaria
autorevolezza. È stato senza dubbio un vero e proprio
«padre nella fede» per molti, uno starec – per
usare la terminologia della tradizione russa – che
sapeva scrutare nel profondo dell’anima e parlare
direttamente alle sue esigenze. Come molti starcy,
poteva risultare imprevedibile, non convenzionale,
inaspettatamente duro o inaspettatamente compassionevole.
Era una personalità di grande complessità,
non un uomo blandamente pio o semplicemente
«simpatico»; ma dentro e attraverso tutte le
lotte interiori e le tensioni che le persone più vicine
a lui conoscevano bene, aveva accettato di rendersi
trasparente a Cristo, così che nella sua presenza si
sentiva sempre la realtà assoluta del Signore.
È stata questa esperienza di pienezza della Presenza
a ricondurlo alla fede cristiana da ragazzo. Egli
stesso descrive in maniera memorabile come si era
messo a leggere il Vangelo di san Marco (l’aveva scelto
perché era il più corto!), e ad un tratto si era reso
conto di non essere da solo: la figura di cui si parlava
nel testo era lì, in maniera innegabile, indimenticabile,
e l’unica risposta possibile era riconoscerla e
fidarsene. Non è esagerato dire che molte persone,
mentre erano con lui, avevano la medesima coscienza
di non essere semplicemente in compagnia di un
altro essere umano, ma sperimentavano in qualche
modo la Presenza di fronte alla quale lui era sempre
presente. Non si può dimenticare facilmente
che cosa voleva dire incontrare lo sguardo intenso,
scrutatore dei suoi occhi e sentirsi spogliato di ogni
pretesto e autodifesa (questa era una delle cose che
aveva in comune con papa Giovanni Paolo II).
Ha vissuto con la massima semplicità. La sua talare
consunta, la sua disponibilità a svolgere i lavori
più quotidiani in chiesa (impilare le sedie oppure
togliere i residui di cera delle candele!), la sua insofferenza
della pompa ostentata dai vescovi ortodossi
– tutto parlava di una rinnovata integrità apostolica,
di una nuova visione di ciò che è veramente importante
nella vita del Corpo di Cristo. Per molti, ha reso
possibile credere che la Chiesa possa ancora essere
veramente apostolica non solo nel ministero e nella
dottrina, ma anche nel suo stile di vita.
Ha sempre sostenuto di non essere un teologo;
ma i suoi insegnamenti sulla dottrina cristiana indicano
una profondità e una finezza di comprensione
teologica tali da confondere il più grande
«esperto». In tutta semplicità, aiutava a vedere
come la dottrina nasca con naturalezza dall’adorazione
e come l’adorazione incarni la dottrina.
Personalmente, l’ho sentito parlare per la prima
volta alla radio quando ero un ragazzo; e ho avuto
il privilegio, circa quarant’anni dopo, di pranzare
con lui poche settimane prima della sua morte e
di ricevere la sua benedizione per l’ultima volta.
Il suo insegnamento sulla preghiera mi ha aperto
delle porte che altrimenti non avrei mai scoperto,
e in tutta la mia vita adulta e nel mio ministero sacerdotale
la sua parola e il suo esempio mi hanno
alimentato. Sono felice che questa mostra abbia
luogo, e sono veramente grato di poter ricambiare
in qualcosa il mio debito nei suoi confronti.
Possa la sua memoria essere eterna! E sempre più
persone possano essere attratte nella luce di Cristo
attraverso le sue preghiere e i suoi insegnamenti.
Arcivescovo Rowan Williams