Dopo «De Renuntiatione» (2019) ecco ora «The End of Everything», in evidente continuità, come conferma il comune sottotitolo: «scritture di mari(lyn)ologia». E dunque, cos’è mai questa mari(lyn)ologia che avrebbe qui addirittura i suoi clandestini vangeli – le sue apocrife «scritture»?
Forse, al solito, l’agudeza barocca, cioè postmoderna, l’ingegnoso concettino di un donferrante, un andy warhol marsicano (focherello, fuochino…) che stende, con mano tremolante, sull’icona di maria theotokos la gialla stagnola della pralina di hollywood, la sua bionda tintura immolata alla nera attaccatura della storia, al fuoco ad alzo zero del suo logos dal cuore nero – al suo sparo a bruciapelo (la piccola kapò, la sorellina minore, la sua pietà sottile come un quarto di luna su cui si abbatte la caterva dell’amore scrocifisso)? Forse…